Fermentazione alcolica senza solfiti: tecniche a basse temperature per vini naturali e longevi

Nel mondo della vinificazione moderna, l’uso dei solfiti è una pratica tanto diffusa quanto controversa. Sebbene svolgano un’importante funzione conservativa, i solfiti sollevano interrogativi in termini di salute del consumatore e integrità organolettica del vino.

Ma è davvero possibile produrre un vino stabile, longevo e microbiologicamente sicuro senza l’impiego di anidride solforosa?

In questo articolo esploriamo un approccio tecnico sempre più interessante per l’enologia contemporanea: la fermentazione alcolica senza solfiti, realizzata attraverso l’utilizzo strategico delle basse temperature. Un metodo che non solo riduce l’intervento chimico, ma valorizza l’equilibrio tra tecnologia, microbiologia e qualità sensoriale.

Perché eliminare i solfiti nel vino?

Una pratica consolidata in cantina quanto nefasta per la salute del consumatore è l’aggiunta di solfiti ai mosti e ai vini. Eppure ad oggi, anno domini 2024, i solfiti continuano ad essere utilizzati. Molte soluzioni alternative al loro utilizzo sono state proposte ma nessuna ha permesso di eliminarli del tutto; Il motivo è semplice: nessuna molecola esercita la duplice funzione di antisettico e di antiossidante.

Antisettici ne sono stati proposti tanti: il sorbato di potassio, il dimetildicarbonato, l’acido fumarico, il lisozima, il chitosano. Ma tutti hanno un punto debole, per cui il risultato è che vengono affiancati ai solfiti senza sostituirli. Di antiossidanti ne sono stati pure proposti tanti, ma spesso il risultato è stato addirittura dannoso per il profilo organolettico dei vini.

Il tannino gallico, l’acido ascorbico, il glutatione si sono più volte rivelati falsi amici dell’enologo in assenza di una adeguata copertura con i solfiti.

La volontà insomma c’è stata, ma a tutt’oggi i solfiti dominano ancora la pratica enologica; l’alternativa ai solfiti, detto brutalmente sono l’ossidazione e/o l’alterazione microbiologica.

Potremmo forse ipotizzare di produrre un vino senza solfiti e scrivere la data di scadenza, ma sarebbe un semplice palliativo che andrebbe a detrimento del concetto di longevità che è necessario ad un vino di pregio.

L’abilità dell’enologo può essere quella di riuscire ad eliminare i solfiti aggiunti prima della fermentazione alcolica che vanno a costituire al 100% SO2 combinata (non attiva), con l’obiettivo di mantenere una alta aliquota di solfiti liberi, con reale effetto antisettico ed antiossidante.

Le basse temperature come alternativa ai solfiti

Il freddo come agente reversibile

Al termine della fermentazione alcolica, condotta senza solfiti aggiunti, si devono impiegare tecniche alternative ai solfiti per salvaguardare il mosto da ossidazioni e contaminazioni.

La migliore tecnologia che mi viene in mente è l’utilizzo delle basse temperature.

Le basse temperature hanno il vantaggio di essere un parametro essenzialmente fisico e reversibile, a differenza dei solfiti che una volta aggiunti, non si possono togliere. Non ho scoperto nulla di nuovo, il freddo in enologia si usa da 50 anni. Ma finora è sempre stato per lo

più abbinato ai solfiti.

Ma che nemici voglio sconfiggere con il freddo? Principalmente tre:

  1. Gli enzimi ossidasici.

  2. I batteri lattici.

  3. I lieviti spontanei (principalmente i non-Saccharomyces).

Tutti questi nemici sono gestibili con le basse temperature.

Temperature critiche e soglie microbiologiche

Il punto è: come individuare la soglia termica di efficacia?

  • 2°C è il limite minimo per l’attività metabolica dei batteri lattici (Lactobacillus brevis,

    Oenococcus oeni).

  • 5°C è il limite minimo per l’attività metabolica dei lieviti e col termine lieviti includo anche

    Brettanomyces/Dekkera bruxellensis.

  • 2°C è il limite minimo di azione della polifenolossidasi (tirosinasi)

Alla temperatura di 2°C non si verifica nessuna azione germicida e nemmeno gli enzimi vengono intaccati: è notorio che sia i batteri che i lieviti possono essere tranquillamente congelati a -18°C senza perdere la loro vitalità; a maggior ragione ciò vale per gli enzimi; solo a temperature di -30°C si ha la completa denaturazione di gran parte dei microrganismi di interesse enologico.

Non dobbiamo dunque preoccuparci della perdita di attività né della perdita di alcuna molecola organica nell’intervallo tra 0 e 2°C.

Tecniche pratiche di vinificazione a freddo

Dalla raccolta alla pigiatura: raffreddamento delle uve

Le uve alla raccolta hanno una temperatura variabile tra i 15 e i 30°C, perciò devono essere portate rapidamente a 2°C mentre sono ancora integre ponendole in ambienti refrigerati.

La pigiatura può avvenire solo dopo che i grappoli abbiano raggiunto stabilmente la temperatura di 2°C; l’ideale sarebbe porre la pigiatrice in cella frigo, nella quasi totale assenza di luce, il minimo indispensabile per l’operatività.

Il contatto del pigiato con l’ossigeno in condizioni di scarsa luminosità e di temperatura di 2°C non è un fattore di ossidazione, poiché la tirosinasi a 2°C non agisce.

Pressatura e sosta del mosto

La fase di macerazione pellicolare che segue alla pigiatura viene svolta a 2°C, possibilmente anche a 0° C: in queste condizioni la flora batterica e i lieviti di buccia non hanno alcuna possibilità di replicarsi.

Siccome la temperatura del pigiato è difficilmente omogeneizzabile bisogna porre la massima attenzione a monitorare la temperatura nella parte alta del recipiente: è proprio in questa zona che è necessario verificare che la temperatura non superi i 2°C, dato che è la zona che tende a scaldarsi prima ed è la zona in cui il pigiato è a contatto con l’ambiente esterno, contaminante per eccellenza. Come esplicato nello schema sottostante la temperatura nella zona superiore del serbatoio è di diversi gradi più calda rispetto alla parte bassa, che solitamente viene monitorata.

La pressatura a 2° C consente di agire a pressioni elevate, dato che non vi è rischio di estrarre polifenoli ossidanti: l’estrazione delle catechine e degli acidi fenolici non è particolarmente alta a queste temperature, dato che la loro solubilità in soluzione acquosa è direttamente proporzionale alla temperatura; le pressioni elevate consentono di aumentare l’estrazione dei composti azotati, dei terpeni (liberi e glicosidati), dei norisoprenoidi e dei composti carbonilici α-β insaturi, precursori di alcuni importanti tioli; infine si auspica una maggiore estrazione degli acidi grassi di- e tri-insaturi, tema ancora poco studiato ma i cui sviluppi sono di particolare interesse.

Il mosto ottenuto dalla pressa potrebbe necessitare di essere riportato a temperature prossime agli 0°C; è necessario trasferire il mosto in un serbatoio di acciaio coibentato e dotato di refrigerazione, colmo con anidride carbonica, che in questa fase è certamente il miglior gas inertizzante, grazie alla sua spiccata polarità che lo rende adeso al solvente (acqua). Il serbatoio di sosta del mosto deve essere interamente riempito dal succo.

Una sosta a freddo nel serbatoio coibentato è sempre preferibile, avendo cura di monitorare tramite microscopio i batteri e i lieviti presenti, con cadenza giornaliera (può essere abbinato il PCR).

La temperatura tenderà naturalmente a stratificare, con la parte alta del serbatoio in cui le temperature potrebbero salire di molto: ciò è un fattore di rischio per cui è necessario monitorare la temperatura del pelo del liquido almeno mattina e sera, operando una miscelazione della massa per ripristinare l’uniformità termica. È superfluo invece monitorare l’ossigeno disciolto, in quanto nel mosto l’ossigeno non è mai presente in forma libera ma sempre legato ad accettori del più vario tipo principalmente poli-idrossi-aldeidi (ossidazione del glucosio ad acido gluconico), come mostrato in figura sottostante.

Centrifugazione e gestione della torbidità

Nel momento in cui si vorrà spillare il mosto da mettere in fermentazione si opererà una centrifugazione che permetterà di scegliere la torbidità ideale a cui condurre la fermentazione: il range consigliato è da 300 a 500 NTU.

Avvio della fermentazione alcolica senza solfiti

L’inoculo del lievito può essere preparato il giorno prima della spillatura; è importante produrre un piede in attiva fermentazione, con molte gemme ed una popolazione di oltre 100.000 cellule attive/mL.

Il mosto da inoculare deve essere rapidamente portato dai 2 ai 18°C di modo che il lievito possa nel minor tempo possibile iniziare il consumo dell’azoto ammoniacale; tale azoto viene organicato sull’acido α-cheto-glutarico inserendolo sul carbonio carbonilico per sostituzione dell’ossigeno con l’azoto, come mostrato in figura sottostante.

Al consumo dell’azoto ammoniacale segue il consumo degli amminoacidi il che inibisce lo sviluppo dei batteri lattici (precedentemente bloccati dal freddo).

Controllo microbiologico e stabilizzazione finale

Durante la fermentazione alcolica il livello dei solfiti totali può essere incrementato da Saccharomyces cerevisiae; per questo motivo nei mosti non devono esserci precursori della SO2 (zolfo elementare).

La fermentazione alcolica non è altro che una riduzione di una aldeide in cui il carbonio ha numero di ossidazione zero (ovvero il D-(+)-glucosio) in 2 molecole di etanolo in cui il carbonio ha numero di ossidazione -2. Il resto del carbonio con numero di ossidazione +4 viene eliminato come biossido di carbonio.

La fermentazione alcolica perciò è un formidabile agente riducente; in assenza di solfiti l’acetaldeide prodotta per decarbossilazione del piruvato sarà completamente libera e quindi verrà integralmente ridotta ad etanolo per ripristinare il NAD+ impiegato per ossidare la 3-fosfo-gliceraldeide a 1,3-di-fosfo-glicerato. La priorità del lievito durante la fermentazione alcolica è di mantenere alta la forma ossidata del NAD (NAD+) all’interno del citoplasma, in quanto è necessaria alla ossidazione del D-(+)-glucosio a piruvato (glicolisi).

Conservazione del vino e longevità senza solfiti

Quando gli zuccheri saranno completamente consumati il vino torbido verrà nuovamente refrigerato a 2°C per almeno 10 giorni; l’autolisi del lievito deve essere bloccata per circa un mese, dopodiché il vino può essere posto in affinamento alla temperatura di 10°C.

È a questo punto che i solfiti possono essere aggiunti, in quanto un tenore di 50 mg/L di SO2 totale (con 30 mg/L di SO2 libera) inibirà lo sviluppo di Lactobacillus ed Oenococcus, i due generi di lattobacilli a metabolismo eterofermentativo: questi batteri oltre a consumare l’acido L-(-)-malico producono acido acetico partendo da molecole quali il glucosio, i pentosi e il citrato, nonché ammine biogene (istamina e tirosina) a partire dagli amminoacidi.

Durante la conservazione del vino il tenore della SO2 libera non deve essere mai inferiore ai 30 mg/L mentre la SO2 totale on deve essere inferiore ai 50 mg/L; a questo punto sarà possibile contenere il tenore di solfiti in bottiglia senza rinunciare a una buona longevità del prodotto.

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Spazio di testa nel vino: un approccio pratico alla conservazione in bottiglia

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Aldeidi e tioli nel vino: reattività chimica, tossicità e implicazioni enologiche