La pioggia come attivante naturale della fermentazione del vino: il ritorno di un equilibrio perduto
In un’epoca in cui l’enologia è sempre più interconnessa con il cambiamento climatico, vale la pena tornare a osservare con occhi diversi ciò che fino a pochi anni fa sembrava un semplice fastidio stagionale: la pioggia.
A cavallo tra cronaca viticola e riflessione tecnica, con questo articolo voglio ripercorrere il ruolo chiave della pioggia come attivante fermentativo naturale, mettendo in discussione molte convinzioni sedimentate nel tempo, tra cui l’idea che “più sole” equivalga sempre a “miglior vino”.
Dalle vendemmie difficili degli anni ’90 alla svolta climatica del 2003, con taglio esperienziale e analitico, affronto qui un tema oggi centrale: il rapporto tra azoto e carbonio nei mosti (N/C), parametro decisivo per la qualità della fermentazione alcolica e la stabilità del vino.
Ripercorriamo insieme pratiche enologiche, annate emblematiche e derive moderne.
Il futuro del vino sarà, forse, una rinnovata alleanza con la pioggia? Ragioniamoci insieme!
Clima e vendemmia: annate storiche e cambiamento climatico
Fino agli anni 2000 le estati, per lo meno nel Centro e nel Nord Italia, erano spesso fresche e piovose e i periodi di caldo limitati. Emblematiche le annate 1995 e 1996, come pure la fine estate del 1998, con il disastroso ottobre 1998 quando caddero oltre 500 mm di pioggia nella località viticola di Ramandolo.
Le gradazioni zuccherine dei mosti erano di conseguenza modeste e la maturazione delle uve era lenta e talvolta tardiva. A quel tempo il problema, in una regione come il Friuli, era la botrite: sovente una varietà tardiva come il Cabernet Sauvignon veniva raccolta per motivi sanitari, senza avere raggiunto la maturità fenolica né quella zuccherina.
All’epoca molti sostenevano che il Cabernet Sauvignon fosse una varietà inadatta per la regione. Ma il Friuli non era l’unica regione che combatteva contro le piogge di fine estate. Nel 1998 in Toscana assistetti a un mese di settembre talmente piovoso, da costringere a una raccolta precoce per salvare l’integrità delle uve Sangiovese, che non raggiunsero gli 11% di alcol potenziale naturale.
Gestione enologica: tra attivanti di fermentazione biologici e sali tiaminati
Il problema ricorrente, per lo meno nel Centro - Nord Italia, erano dunque le gradazioni zuccherine insufficienti. E il parametro correlato da indicare è il tenore in carbonio, espresso come g/L di zuccheri esosi nei mosti (C).
Perciò si ricorreva spesso all’arricchimento, specialmente per le uve a maturazione tardiva.
Consuetudini enologiche pre-2000
A quei tempi (si parla di oltre 25 anni fa!) sentivo poco parlare di azoto, le piante erano rigogliose e spesso la vigoria andava contenuta: molte foglie producono molto azoto, che poi viene traslocato negli acini.
Era sapere condiviso, appreso dai libri di testo, che servivano 200 mg/L di azoto (N) per portare a secco un mosto.
E per raggiungere tale risultato si utilizzavano i sali tiaminati, spesso senza fare analisi del tenore in azoto: una misura preventiva, col senno di poi un’azione - probabilmente- a sproposito.
Tale consuetudine, peraltro, non era solo italiana: mi trovai in Cile a chiedere all’enologo perché su tutte le schede di vinificazione indicasse, indiscriminatamente, l’aggiunta di sali tiaminati e lui mi rispose che la notte gli piaceva dormire!
Era il febbraio 2002, la fine di un’Era.
Nel nostro emisfero il 2002 fu l’ultimo anno “vecchio stile”... piogge, botrite dalla Francia al Sud Italia. L’anno seguente la catastrofe.
2003: anno della svolta climatica ed enologica
Nel 2003 nemmeno i meteorologi erano pronti a ciò che accadde:
- 4 mesi di caldo continuo,
- piogge sporadiche,
- picchi termici che portarono l’inferno in Francia (44°C), in Spagna (46°C), in Portogallo (49°C), in Italia (42°C),
- decine di migliaia i decessi nel nostro continente (oltre 10.000 persone solo in Francia).
Fermentazioni difficili e difetti del vino
Nel 2003 il rapporto N/C nei mosti (mg/L di azoto prontamente assimilabile / g/L di zucchero) fu di molto inferiore a 1 in molteplici situazioni:
- mosti da uve disidratate, con 260 g/L di zuccheri e un APA di 70 mg/L, avevano un rapporto N/C di 0,27;
- problemi: di fermentazione, di riduzione;
- proliferazioni di batteri indesiderati e del famigerato Brettanomyces.
Certo tali problematiche sono eterne come il vino, ma fu nel 2003 che si rivelarono in tutta la loro virulenza.
Soluzioni moderne vs approccio tradizionale
Nel 2003 si cominciò a comprendere che colui che era considerato amico del vino, il sole, poteva rivelarsi un terribile nemico, mentre ciò che era considerato un fastidio per il vignaiolo, la pioggia, era invece essenziale.
Un concetto che di per sé è logico: è la pioggia il migliore attivante fermentativo!
Del resto i grandi vini erano nati in epoche ben più fredde di oggi, in zone fresche. Pensiamo alla Borgogna, al Reno, allo Champagne. Pensiamo al XIX Secolo, quando i nevai sulle Alpi Giulie lambivano i 1800 metri, mentre oggi sono estinti.
Evidentemente i grandi vini nascevano con rapporti tra azoto (N) e carbonio (C) alti, superiori a 1: 200 mg/L di APA su 170 g/L di zuccheri, ad esempio.
Le vendemmie si svolgevano nel pieno dell’autunno, con il freddo. La criomacerazione era un fatto naturale, dato che si raccoglievano uve con temperature di 8 - 10°C.
Erano i tempi di Pasteur, quando nacque la moderna enologia e con essa i grandi vini. Di certo quelle uve erano naturalmente ricche in azoto (N), seppur povere in zuccheri (C).
Il ritorno auspicato della pioggia come attivante naturale
Possiamo dunque concludere che fino all’anno 2000 il rapporto N/C fosse abbondantemente superiore ad 1 nella gran parte delle aree viticole, per lo meno in Europa.
Oggi questo rapporto è raramente superiore a 1 e a volte è inferiore a 0,5, di conseguenza proliferano i prodotti enologici che forniscono azoto (N), nelle più molteplici forme, con le più molteplici promesse.
Ma i tempi in cui N lo portava la pioggia personalmente desidererei ritornassero.
Il cambiamento climatico sta riscrivendo le regole dell’enologia. Se anche tu ti stai interrogando su come garantire fermentazioni stabili, naturali ed efficaci in un contesto sempre più caldo e imprevedibile, è il momento di agire.
Prenota una consulenza tecnica per approfondire il bilanciamento del rapporto N/C nei mosti, valutare strategie meno dipendenti da correttivi artificiali e più in sintonia con l’equilibrio della vite e del clima.
Perché forse, il futuro del vino, ha ancora bisogno della pioggia!